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Diagnosi prenatale non invasiva: Sindrome di Down, malattie monogeniche e mutazioni

La diagnosi prenatale non invasiva (indicata anche con la sigla NIPD) è un’alternativa priva di rischi ai metodi invasivi per la diagnosi prenatale, come ad esempio l’amniocentesi. Coinvolge diverse aree mediche, dall’ostetricia e ginecologia, alla genetica e alla pediatria.

La statistica, l’informatica e le altre scienze esatte consentono lo sviluppo continuo di tecnologie e algoritmi per la diagnosi senza rischi, attraverso la non invasività. La diagnosi non invasiva è, come risaputo, importante in qualsiasi campo medico, poiché un principio fondamentale della medicina è il “primum non nocere”, cioè “prima non fare del male”. Nel nostro articolo vedremo in cosa consiste la diagnosi prenatale non invasiva.

Ci concentreremo poi sulle novità che si stanno presentando in questi anni sullo scenario della diagnosi prenatale di patologie cromosomiche molto diffuse come la Sindrome Down, malattie monogeniche e le patologie provocate da mutazioni puntiformi.

Cos’è la diagnosi prenatale non invasiva

La diagnosi prenatale non invasiva (NIPD) si riferisce alla diagnosi genetica del feto attraverso il DNA libero dalle cellule circolanti (cfDNA) estratto dal plasma materno. Parte di questo cfDNA proviene da cellule placentari, il suo studio ci permette di definire l’eredità fetale.

La NIPD sta rapidamente diventando un’alternativa alle tecniche invasive per la diagnosi prenatale, come ad esempio il prelievo dei villi coriali (CVS) e l’amniocentesi, che comportano un rischio di aborto spontaneo. I primi usi clinici di tali metodiche non invasive riguardavano l’identificazione di alterazioni a livello cromosomico, come ad esempio il rilevamento di aneuploidie oppure la determinazione del sesso fetale.

Diagnosi prenatale non invasiva e sindrome di Down

La sindrome di Down fu descritta per la prima volta da un medico inglese John Langdon Down nel 1866, ma la sua associazione con il cromosoma 21 venne stabilita quasi 100 anni dopo dal dottor Jerome Lejeune a Parigi. È caratterizzata dalla presenza di tutta o parte della terza copia del cromosoma 21. Si tratta dell’anomalia cromosomica più comune che si verifica negli esseri umani.

L’esempio più notevole dell’impiego delle metodiche non invasive è il suo utilizzo proprio nell’identificare la sindrome di Down. Si è visto che questo test presenta un’elevata sensibilità e specificità, non solo per la popolazione a rischio, ma anche nella popolazione generale. Questo test si basa sul confronto della quantità di cfDNA che proviene da ciascun cromosoma. Ricordiamo che esistono diversi metodi utilizzati per la diagnosi prenatale della sindrome di Down.

Si possono infatti impiegare gli ultrasuoni tra le 14 e le 24 settimane di gestazione. La diagnosi in questo caso si basa sulla valutazione della positività di alcuni marker come l’aumento dello spessore della piega nucale, l’osso nasale piccolo o assente e i grandi ventricoli. Anche l’amniocentesi e il campionamento dei villi coriali vengono ampiamente utilizzati per la diagnosi, ma esistono un piccolo rischio di aborto che oscilla tra lo 0,5% e l’1%.

Per ovviare a questa eventualità sono stati sviluppati altri metodi che permettono una rapida individuazione della trisomia 21 sia durante la vita fetale che dopo la nascita. Il più comunemente usato è il FISH dei nuclei interfase utilizzando sonde specifiche Hsa21 o l’intero Hsa21.

Un altro metodo attualmente in uso è la QF-PCR che permette di individuare la presenza di 3 diversi alleli utilizzando marcatori polimorfici del DNA. Il successo di questo metodo dipende dai marker informativi e dalla presenza di DNA. È stato riscontrato inoltre che fino all’86,67% dei casi di sindrome di Down si può identificare utilizzando il metodo del marker STR.

Un metodo relativamente nuovo chiamato “quantificazione della sequenza paralogue (PSQ)” utilizza la sequenza paralogue sul numero di copie Hsa21. Si tratta di un metodo basato sulla PCR che utilizza i geni paraloghi per rilevare le anomalie del numero di cromosomi.

Come già accennato, esistono metodi diagnostici prenatali non invasivi che sono allo studio da utilizzare per la diagnosi prenatale della sindrome di Down. Questi si basano sulla presenza di cellule fetali nel sangue materno e sulla presenza di DNA fetale libero nel siero materno.

Il DNA fetale privo di cellule costituisce dal 5% al ​​10% del plasma materno e aumenta man mano che la gravidanza va avanti, diminuisce poi progressivamente dopo il parto. Sebbene questo metodo sia stato utilizzato per determinare lo stato Rh fetale, le patologie legate al sesso e per l’individuazione del tratto autosomico recessivo e dominante ereditato paternamente, è ancora una sfida l’individuazione dell’aneuploidia cromosomica, in particolare la trisomia. Sono in fase di sviluppo anche altri metodi come la PCR digitale e il sequenziamento di nuova generazione (NGS) per la diagnosi della sindrome di Down.

Mutazioni puntiformi e diagnosi prenatale non invasiva

Una mutazione puntiforme è una variazione di sequenza del DNA che interessa uno o pochi nucleotidi ma è possibile considerare “puntiformi” anche mutazioni fino a 50 nucleotidi. Oggi esistono metodi di quantificazione che consentono di effettuare la diagnosi prenatale non invasiva anche di delezioni e duplicazioni sub-cromosomiche.

Inoltre sono diventati disponibili anche utilizzi ad alta risoluzione di cfDNA, cioè a livello di singoli geni e mutazioni. Questi includono il gruppo sanguigno Rhesus-D (RhD), mutazioni puntiformi di origine paterna e mutazioni de novo, tutte deducibili in base all’assenza o alla presenza di alleli estranei nel plasma materno. L’eredità delle mutazioni puntiformi che derivano dalla madre è più difficile da identificare perché il cfDNA nel plasma materno è una miscela di frammenti di DNA sia fetale che della mamma. Inoltre, poiché il feto condivide metà del suo genoma con la madre, è impossibile separare completamente il DNA fetale da quello materno.

Nello specifico, nelle posizioni in cui la madre è eterozigote, entrambi gli alleli eventualmente ereditati sono presenti nel plasma materno, e quindi il DNA fetale non è distinguibile. Pertanto, i metodi basati esclusivamente sul rilevamento della presenza di un allele nel sangue non sono utili ed è necessaria la quantificazione. Tuttavia, questo pone diverse sfide. In primo luogo, le quantità di cfDNA nel plasma sono basse, il che rende difficile la sua quantificazione.

Secondo, una forte inclinazione verso i frammenti di origine materna nel cfDNA rende più impegnativa l’esplorazione specifica del DNA fetale. Entrambi questi parametri sono inferiori anche nelle prime fasi della gravidanza, che sono quelle clinicamente più rilevanti. Ad esempio, la frazione fetale media è solo del 10% alla fine del primo trimestre.

Per vincere queste sfide è necessaria quindi una tecnologia di conteggio estremamente accurata oppure effettuare l’amplificazione del DNA. Il primo metodo sviluppato per individuare e valutare l’eredità delle mutazioni materne si basa sulla PCR digitale (dPCR), una tecnologia di quantificazione accurata che consente di rilevare squilibri allelici minimi. Con questo metodo, chiamato “analisi del dosaggio di mutazione relativa (RMD)”, viene esaminato all’interno del cfDNA un locus genomico in cui la madre è eterozigote. L’approccio RMD è stato successivamente convalidato su varie mutazioni e malattie.

Malattie monogeniche e diagnosi prenatale non invasiva

Le malattie monogeniche vengono anche definite Mendeliane. Si tratta di una serie di patologie causate da mutazioni che avvengono in singoli geni.

Queste malattie possono essere a loro volta suddivise in autosomiche dominanti (come la corea di Huntington); autosomiche recessive (fibrosi cistica, anemia falciforme, talassemia); e malattie legate al cromosoma X (emofilia). L’emergere del sequenziamento di nuova generazione (NGS) è stato un passo importante nello studio dei disturbi monogenici.

Metodi basati su NGS, come il sequenziamento dell’intero esoma (WES) e il sequenziamento dell’intero genoma (WGS), hanno portato alla scoperta di innumerevoli varianti, molte delle quali sono patogene e responsabili di malattie monogeniche. Il WES/WGS prenatale invasivo, eseguito mediante amniocentesi, consente la diagnosi di malattie monogeniche già nelle prime fasi della vita, offrendo così un trattamento precoce in alcuni casi, e l’interruzione della gravidanza se necessario, in altri.

L’interesse per il raggiungimento di un WES/WGS prenatale non invasivo è cresciuto costantemente, ma purtroppo i metodi sopra menzionati per rilevare le mutazioni puntiformi si basano su tecnologie che non sono fattibili su larga scala. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda l’eredità materna e anche le mutazioni de novo.

L’approccio RMD, ad esempio, era basato su dPCR. Di conseguenza, il rilevamento delle mutazioni materne non era adatto perché richiedeva la progettazione di set di primer specifici per ciascuna mutazione. Rispetto ai test per mutazioni specifiche e piccole regioni, la ricerca sull’intero genoma di mutazioni rare è sostanzialmente più difficile a causa dell’assenza di conoscenze preliminari. Separare una vera mutazione de novo dal rumore di sequenziamento diventa difficile in tale contesto.

I progressi raggiunti dalle metodiche di diagnosi prenatale non invasiva e la crescente disponibilità del sequenziamento di nuova generazione alla fine hanno portato al successo dei primi tentativi di sequenziamento dell’intero genoma prenatale in maniera non invasiva; questo ha consentito di effettuare la diagnosi prenatale di diverse malattie monogeniche.

È stato dimostrato però che un’accurata genotipizzazione non invasiva dell’intero genoma dipende dalla frazione fetale e dall’accuratezza del sequenziamento; entrambi questi fattori costituiscono una limitazione. Ciò è dovuto principalmente alla scarsa disponibilità e ai costi elevati delle tecnologie richieste. Migliorare gli aspetti computazionali e algoritmici di questi approcci può aiutare a superare tali problemi.

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